È il due gennaio 2021, piove di una pioggia sottile e il cielo è grigio latte da giorni. È l’inizio dell’anno e decido di regalare due copie del mio romanzo «sangue e latte» alle prime persone che incontro per strada. Ho impiegato quasi due ore per riuscirci. Le persone con cui tento di instaurare un contatto mi schivano, scappano, mi dicono senza fermarsi che hanno già un sacco di libri. Non mi aspettavo di dover fronteggiare un rifiuto, pensare che questa estate – la 2020 – ho raccontato «sangue e latte» a centinaia e centinaia di persone. Tre mesi tra Abruzzo Basilicata e Puglia. Spiagge montagne bar librerie e persino al molo penultima panchina. 

Ho fallito tutti gli approcci, allora gioco d’astuzia, mi metto in coda per un cappuccino e approfitto dell’immobilità della fila per cercare uno straccio di conversazione. Attacco bottone, il mio interlocutore si interessa, mi chiede del libro e della casa editrice, ma anche volendo non potrebbe accettare. Ha paura che il libro sia infetto. 

Insisto, so che è questione di tempo, mi ripeto che è impossibile che la gente non abbia voglia di un incontro. Ne sono convinto. Alcune persone si nascondono, altre sono intimorite, e altre ancora si sono disabituate al contatto, ma sotto lo senti che hanno voglia di parlare. E allora continuo, continuo con dolcezza ma continuo, e un gruppo di tre donne all’inizio restie si appassiona e accetta il mio libro. È notte, è l’una passata, un bip del telefono mi dice: “ho appena finito di leggere «sangue e latte». Grazie per il tuo dono”.

Il giorno dopo mi sono svegliato con l’urgenza di fare qualcosa. Non era possibile che la gente pensasse che il libro fosse infetto. Non era possibile accettare il muro di diffidenza e paura che si è eretto tra le persone. Un muro separatore che confina il corpo dell’altro e lo mette da parte, distante come un nemico da temere.

Convinto che l’incontro sia imprescindibile per il pieno sviluppo della persona umana, e che incontrare vuol dire uscire, andare a scuola, in piscina, al cinema, al bar, in piazza. Convinto che il capitale sociale relazionale sia la più grande risorsa di cui disponiamo e che senza non c’è crescita, non c’è sviluppo, non c’è scambio. 

E senza scambio le idee e i gesti appassiscono.

Senza scambio non c’è possibilità di aggiungere e contaminarsi. 

Senza scambio non c’è scarto, si resta confinati nel proprio perimetro ad atrofizzarsi nelle proprie certezze. 

Addio conoscenza, addio scoperta, addio contatto.

Addio vita.

Non potevo restare al chiuso a fissare il telefono. Sentivo di voler scendere in strada. Qualcuno me lo stava dicendo, era il corpo. Il mio corpo era stufo, stufissimo di non incontrare il corpo dell’altro. Di tenerlo distante e separato. I corpi parlano, hanno tanto dire, dicono in continuazione. Segnalano, suggeriscono, sussurrano, gridano, raccontano, stimolano e talvolta intimano senza mezze misure. 

«Vai in strada!» diceva «Vai!»

«Rischia, ne vale la pena!»

«Se non rischi, non incontri, se non incontri, non scambi, se non scambi, diventi un’ameba»

E l’ho ascoltato il mio corpo, gli ho dato retta e sono sceso in strada a parlare con le persone. Ho portato con me una scatola, delle lettere e delle matite. Ho cominciato il 23 gennaio 2021. Sì, avete capito bene, lettere e penne, ho dato voce ai corpi, li ho fatti scrivere. 

A me il corpo aveva detto «scendi, abbassati. Fa come il sole al tramonto, lascia la posizione e  mischiati, se non ti mischi, non c’è incontro»

E agli altri cosa stava dicendo? 

E allora gliel’ho chiesto: «cosa ti dice il corpo?»

Ho raccolto oltre seicento lettere, seicento messaggi che esprimono le ansie, le paure, i desideri, le angosce, i sogni, le aspettative, le gioie, i dolori e i progetti dei Milanesi. Ho fermato ragazzi, uomini, donne e anziani. Stranieri. Dalla periferia al centro, l’ho chiesto a chiunque, l’ho chiesto a gruppi, a singoli, a coppie; a persone con mascherina e occhiali da sole e a persone senza. 

L’ho chiesto a uomini e donne solitarie, sedute su una panchina, in parchi semi deserti con la mascherina sotto gli occhi, le cuffie nelle orecchie e il cellulare in mano. Persone che non si accorgevano della mia presenza, del mio corpo, nemmeno quando ero a dieci centimetri da loro. Dovevo abbassarmi, assumere l’altezza di un bambino per farmi notare. Alcuni scorgendomi si sono ritratti, e io mi sono allontanato, altri invece hanno ascoltato ciò che avevo dire e hanno lasciato il loro messaggio.

Ho raccolto lettere, e le lettere sono stupende, disegni, parole, frasi, confessioni. Sono uno spettacolo.

I corpi parlano. 

I corpi dicono come dice il nome del progetto. 

Queste lettere però non sono mie, e non sono nemmeno di chi le ha scritte, sono della città. Dei cittadini. E allora aiutatemi a mostrarle, aiutatemi a realizzare una mostra dove i cittadini le possano leggere, ci possano girare intorno e prenderle in mano. Dove le possano incontrare.


Disegno in alto: «cosa ti dice il corpo?» di Sissi, incontrata per caso

Comments are closed